C’è chi lo ha chiamato il Cane dei Faraoni facendo riferimento ad antiche immagini. E per la verità le origini del Cirneco sono remote. Risalgono, in Sicilia, addirittura a qualche secolo prima di Cristo.
Qualche centinaio di anni dopo, il Cirneco era molto diffuso ed aveva acquistato una notorietà cosi grande che le città più importanti della Sicilia e di tutta la Magna Grecia, a partire dal V secolo a.C., avevano coniato moltissime monete con la sua effigie riprodotta in una delle due facce.
Prima non esistono certezze né sul luogo dove si sia formato, né attraverso quale selezione. Un’ipotesi più probabile e scientificamente più attendibile è quella della provenienza dal nord dell’Africa orientale. All’inizio dell’ultimo millennio a. C. i Fenici avevano incominciato a diffondere in tutto il bacino del Mediterraneo uno splendido cane che, originario della Valle del Nilo, e poi diffusosi in tutto il nord dell’Africa fino al Marocco, era diventato un oggetto di scambio molto ricercato, come fosse una merce
Si trattava di esemplari le cui sembianze si possono ammirare in molte iconografie presenti nell’antico Egitto, come nei bassorilievi ritrovati a Luxor, riconducibili al 2000 a.C., la cui somiglianza con il nostro Cirneco è veramente straordinaria. Il Podenco Ibicenco, il Podengo Portoghese, il Podenco Canario, il Podenco Andaluso, il Cane dei Faraoni, il Basenij, lo Charnigue e il Cirneco dell’Etna probabilmente non sono altro che il risultato di tremila anni di adattamento all’ambiente che l’originario cane egiziano ha subito nella Penisola Iberica, in Francia, a Malta, in Sicilia ed in altri Paesi. Tutti hanno, però, conservato la stessa espressione, le stesse movenze, la stessa distinzione ed eleganza, la stessa passione sfrenata per la caccia al coniglio, e basta osservarli per riconoscere un forte legame di parentela che accomuna tutte queste razze, sia morfologicamente, sia nel modo di cacciare.
Il ritrovamento, presso il fiume Simeto, in Contrada “Pietralunga” presso il Comune di Paternò dello scheletro di un cane con una struttura ossea simile a quella del Cirneco, risalente al 1500 a.C., ha fatto sorgere in molti cultori della razza l’idea che l’origine fosse autoctona.
Anche sull’etimologia di Cirneco sussistono diverse ipotesi più o meno attendibili. Molti sostengono che il nome derivi dal latino “cirniri”, la cui traduzione significa cercare; altri invece credono che derivi dal termine greco ” Kyrenaikos”, cioè proveniente da Cirene, città della Cirenaica (attuale Libia).
Probabilmente la seconda ipotesi è la più attendibile, anche perché sorretta da molti scritti, fra cui quelli di Aristotele (384‑322 a.C.) che, nel suo trattato ” Historia animaliura”, parla di antichi cani presenti a Cirene e, a detta dell’autore, derivanti da incroci di cani domestici con i lupi abissini (il Caberù, detto anche sciacallo del Semien). La latinizzazione del termine Kyrenaikos trasformò poi il nome in Cyrenaecus, che in siciliano divenne Cirniecu, o Cirnecu, a seconda dei dialetti.
Dopo un periodo stupendo, ricco di grande notorietà che si è prolungato fino ai primi secoli dopo Cristo (ne sono una splendida testimonianza i mosaici romani di Villa Casale presso Piazza Armerina ad Enna, riconducibili al IV secolo d.C.), il Cirneco è vissuto senza che nessuno ne abbia fornito testimonianze scritte: lo troviamo rappresentato solo in opere pittoriche o in decorazioni di ceramiche che rappresentano scene di caccia. Osservando queste iconografie è legittimo dedurre che in Sicilia il Cirneco, anche se manifestava lo stesso tipo, avesse subito delle significative trasformazioni dell’aspetto morfologico, a seconda del tipo di caccia a cui era destinato. Nelle rappresentazioni di scene di caccia al cinghiale, il Cirneco, infatti, veniva raffigurato più raccolto, alquanto tozzo e con il cranio più largo; in quelle di caccia al cervo ecco che appariva un cane slanciato ma robusto, molto più alto, più di tipo levrieroide; se la preda era invece la lepre, la volpe, oppure il coniglio, ecco che la taglia si riduce e mostra un animale alto sugli arti, leggero e rassomigliante al Cirneco attuale.
Nel 1932,un veterinario di Adrano, il dott. Maurizio Migneco, attraverso il giornale “Il cacciatore italiano”, lanciò un appello accorato, denunciando il pericolo di estinzione in cui versava l’antico cane siciliano. L’invocazione fu raccolta da un gruppo di appassionati, capeggiati da Agata Paternò Castello dei duchi di Carcaci, una giovane nobildonna, che avrebbe dedicato al Cirneco i prossimi 26 anni della sua vita. La Nobildonna studiò profondamente le origini di questo antico cane da caccia, ne analizzò le caratteristiche fenotipiche, recuperò i soggetti più meritevoli e cominciò ad operare una selezione con l’affisso Aetnensis. Non passarono moltissimi anni, e il motivo lo ebbe a dire la stessa allevatrice in una lettera, datata 8/1/1954, ad un altro appassionato di questo cane, il conte Giovanni Bonatti Nizzoli di Carentino, “..il Cirneco ha una formidabile potenza ereditaria, ciò spiega perché questa razza, pur abbandonata, si sia conservata pura sin dall’epoca dei Faraoni“. Quando la nobildonna fu sicura di aver recuperato tipo e conformazione, sottopose il suo lavoro al prof. Giuseppe Solaro, zoologo eminente, che ne scrisse lo standard. Nel 1939, soltanto sette anni dopo il grido di allarme di Maurizio Migneco, l’ENCI riconobbe ufficialmente la razza con il nome Cirneco dell’Etna
Il primo campione Italiano di bellezza fu proclamato nel 1952, Aetnensis Pupa, allevata dalla Duchessa. Il Club di Razza fu fondato nel 1951 a Catania, con il dr. Migneco come primo presidente e con Donna Agata, “la signora dei Cirnechi”, come segretaria. ENCI riconobbe il Club nel 1956.
Il Cirneco è vissuto all’ombra del padrone per tremila anni solo perché era in grado di cacciare, soprattutto il coniglio, pasto privilegiato per il sapore e il contributo di proteine che offriva. Spessissimo, in particolare i soggetti più bravi, venivano nascosti per il timore che potessero essere rubati, tenuti in segreto come una cosa preziosa. Si negavano i maschi per gli accoppiamenti, manifestando una sorta di gelosia che trova motivazioni solo in chi conosce la cultura e la mentalità siciliana. Questo modo di vivere, lontano da sguardi indiscreti, ha favorito nel tempo il consolidarsi di un carattere schivo e diffidente, spesso pauroso, tanto da credere che questo modo di manifestarsi fosse una caratteristica della razza. Negli ultimi tre o quattro decenni, grazie allo sviluppo delle conoscenze e ad una più matura cultura cinofila, si è intervenuto anche sul carattere di questo cane selvaggio e i risultati sono stati entusiasmanti; è riaffiorato un animale vivace, attivo, disponibile e con tanta voglia di giocare. L’assenza di turbe ha restituito al padrone un compagno “esageratamente” fedele e disponibile a condividere con esso giornate di svago, di libertà, anche se in compagnia di altre persone e di altri cani. La sua vocazione primaria resta però sempre la caccia.
Il lavoro
È uno “specialista”. Vederlo cacciare sulla pietra lavica nuda, nelle pietraie, in luoghi impervi e pieni di insidie, sotto il sole cocente di quei giorni di agosto dove l’afa ti toglie il respiro, è veramente sbalorditivo. Perlustra il terreno con grande attenzione e, mentre interroga il vento con il naso proteso in avanti e le orecchie rigide nell’intento di carpire il benché minimo rumore, scruta il paesaggio e ne seleziona gli angoli più idonei; poi, deciso, inizia un lavoro meticoloso, perlustrando ogni angolo con un movimento ritmico della coda più o meno veloce a seconda del segnale che riceve, infilando il naso in ogni anfratto con la sicurezza di chi conosce a fondo il proprio mestiere. Se si osserva la sua azione, si capisce che nulla fa per caso e, anche quando si muove, seleziona i passaggi più facili, con passo svelto, sicuro, ma privo di irruenza; usa, dunque, il cervello e Io si nota soprattutto quando individua la presenza di un coniglio dentro un cespuglio o sotto un cumulo di rami caduti; si irrigidisce, raddrizza fortemente le orecchie, alza la coda a tromba sul dorso: è il segnale per il cacciatore. Localizzato il sito, incomincia a lanciare il suo grido di guerra, con toni acuti, brevi e ripetuti ma, invece di pressare il coniglio nel suo nascondiglio, aggira il luogo nell’intento di tagliare la strada alla possibile fuga. Se il malcapitato decide di non scappare, ripete questa azione due o tre volte e, solo quando il coniglio persiste nel rimanere nascosto, affronta deciso il nascondiglio con impeto e veemenza: la fuga diventa l’unica possibilità di salvezza per la vittima. Spesso il roditore riesce a sottrarsi anche all’inevitabile fucilata del cacciatore e allora il cane riprende subitaneamente la sua azione, manifestando un’altra capacità che è caratteristica di razza: segue le tracce con il naso incollato sul terreno e, come un cane da seguita, risale velocemente e con sicurezza l’usta fresca fino al nuovo nascondiglio. Se invece individua la presenza del coniglio, nascosto in un forte sufficientemente protetto, il Cirneco si gonfia di rabbia, sbuffa, strappa le radici, scava con impeto e lancia il suo guaito di sfida; brucia desideroso di affondare i denti nella preda, ma, il più delle volte, deve cedere il passo al suo collega, il füretto, che porta a termine il suo lavoro. Cirneco e furetto costituiscono una coppia micidiale, con una convivenza colma di contrasti e compromessi, ma da sempre, nell’isola, rappresentano il corredo ideale del cacciatore di conigli Osservare tutto questo significa cogliere l’essenza primitiva di un animale che la natura ha voluto selvaggio perché solamente questa condizione ha permesso al cane di vincere una sfida che è stata motivo di sopravvivenza ai danni di un avversario difficile e di un ambiente che è precluso ad ogni altra razza. Qualcuno incomincia ad adottare il Cirneco solo come cane da compagnia ed è facile prevedere che, in futuro, la sua grande eleganza gli farà conquistare un posto di rilievo nella cinofilia italiana ed internazionale. Questa possibilità deve essere motivo di riflessione per chi alleva ma, soprattutto, per chi ha il dovere di salvaguardarlo. Tutelare una razza non significa seguire le mode, né le dinamiche del mercato, ma conservarne le caratteristiche fenotipiche e la funzione per la quale è stata selezionata e si è evoluta. Le motivazioni zootecniche e culturali lo impongono, in quanto questo cane deve essere considerato un reperto archeologico vivente, e la storia di almeno 5000 anni, di cui è portatore, è un patrimonio che appartiene a tutta l’umanità.
Il Cirneco, svuotato dalle sue doti venatorie, resterebbe privo della sua identità, perderebbe le sue radici, sarebbe un altro cane.
Il Cirneco moderno, oggi, si propone come un cane attivo, vivace e sempre disponibile.
È di media taglia, alto sugli arti, dalle forme eleganti e slanciate, ma allo stesso tempo rustico, robusto e resistente. Molti lo confondono con il levriero, ma le differenze morfologiche, e soprattutto psichiche e funzionali, sono tali che non è possibile sostenere nessuna forma di parallelismo. Il Cirneco è un cane monocromatico e il colore della pelle, delle mucose del tartufo, delle rime palpebrali, delle labbra, delle unghie e dei cuscinetti plantari, deve essere carnicino ed in sintonia con quello del mantello. La rusticità è una caratteristica di razza e bisogna diffidare dei cani con il pelo cortissimo, vellutato e magari mancante alla base delle orecchie o sotto il collo, con le code finissime o da topo. Il pelo deve essere corto sulla testa, sulle orecchie e sugli arti, ma, contemporaneamente, semilungo, liscio e ben aderente sul tronco e soprattutto sulla coda. È rustico anche nella sua psiche e Io manifesta dal punto di vista organico proprio quando va a caccia: la capacità di lavorare sotto il sole cocente, sopra la pietra viva e tagliente, fra rovi fitti e ricchi di spine lunghe e robuste, la caparbietà e l’accanimento con cui fa tutto questo, senza chiedere acqua e senza rese, sono la testimonianza di una personalità aspra e selvaggia. Le orecchie, dal punto di vista morfologico, rivestono una grande importanza perché sono una regione che contribuisce fortemente ad individuare una giusta espressione. Devono essere inserite alte, di forma triangolare, in posizione frontale, larghe alla base e con punta stretta, rigide, ravvicinate e con la cartilagine spessa alla base che va assottigliandosi in prossimità della punta. Ciò significa che le orecchie, in attenzione, non devono presentare pieghe evidenti, i margini esterni devono essere quanto più rettilinei e la loro direzione deve essere parallela o quasi. Un’altra caratteristica di razza fondamentale e fortemente qualificante è l’altezza sugli arti. Questa particolarità, osservando la sua costruzione, deve essere visibile ed evidente. Scaturisce dalla caratteristica che l’altezza da terra alla punta del gomito deve essere superiore a quella che va dalla punta del gomito al garrese. Se analizziamo la lunghezza dei segmenti ossei, si deduce che tale peculiarità è da imputare da una parte alla brevità del braccio, dall’altra al significativo sviluppo dell’avambraccio insieme ai metacarpi che sono lunghi e tesi. La conseguenza di tale costruzione è la presenza di aria sotto i gomiti che si manifesta con una sorta di mancanza di aderenza fra il gomito ed il torace, rafforzata pure dalla forma stretta del petto e dalle coste poco cerchiate; per tutte queste ragioni l’estremità inferiore del torace deve trovarsi poco sopra o al limite della punta del gomito. Il movimento rappresenta una particolarità che scaturisce proprio da una corretta costruzione. Il Cirneco è costruito come un galoppatore veloce, ma utilizza questa conformazione per saltare sulle punte delle rocce. Quando trotta, invece, assume un’andatura particolare che deve essere considerata una caratteristica di razza. E’ un trotto ordinario (le orme dell’anteriore coprono quelle del posteriore); questo movimento che è articolato dal passaggio da un bipede all’altro, mediante tre tempi e due battute, non conferisce al cane significativi movimenti laterali.
(fonte ENCI)